Il sole era appena tramontato, quando
l’uomo entrò nel parco.
Esercitava la professione di scrittore
ormai da qualche anno, ma da tempo non lo coglieva un’ispirazione che fosse
davvero degna di questo nome, una di quelle idee talmente buone che pervadono
l’animo e stregano la mente, una di quelle trovate così valide che se ti
scuotono nel cuore della notte, mentre stai dormendo, non puoi aspettare l’indomani
per segnartele sul taccuino.
Ciò rappresentava un serio problema per
lui, che per vivere doveva farsi venire spunti esaltanti in continuazione. Se
ne disperava, si struggeva, stava alzato fino a tarda notte sperando che
qualche buona idea lo afferrasse; ma tutto ciò che ne rimediava era il cestino
puntualmente zeppo di carta straccia. Nemmeno la pioggia con la sua musicalità
poetica, neppure l’atmosfera notturna colma di fascino e silenzio e neanche
tutt’e due le cose insieme riuscivano a fornirgli qualche spunto che fosse
vagamente degno di nota.
Da giorni vagava per i dintorni del suo
paesello in cerca di un luogo particolarmente suggestivo da ispirarne la penna,
senza ottenere, però, i risultati sperati. Tutti gli sembravano banali, già
visti, monotoni, incapaci di risvegliarne la creatività e l’abilità
compositiva.
Si comprende all’istante quando un posto
è quello giusto; non deve necessariamente essere un paradiso terrestre o una
spiaggia caraibica, ma deve bensì entrare nell’animo dell’artista, scolpirsi
nella sua retina e invadergli la mente, affinché possa guidarne la mano nella
realizzazione dell’opera d’arte. E’ un colpo di fulmine, un innamoramento
improvviso e inaspettato tra uomo e paesaggio, con cui il primo mette a
disposizione il proprio corpo al secondo affinché possa esprimersi attraverso
di lui.
Fu proprio quel che gli successe un
giorno, al calar della sera, entrando sconfortato in un parco proprio dietro
casa sua. L’aveva scoperto per caso, e prima d’ora – strano a dirsi – non si
era mai accorto della sua esistenza. Il cielo, coperto di nuvole, contribuiva a
creare quell’atmosfera malinconica che solo a inizio Novembre è possibile
vivere nella Brianza, quando le foglie ingialliscono e cadono dai rami per
tappezzare i viali.
Non ci aveva mai fatto caso prima di allora,
né tantomeno ci era entrato, e ciò era parecchio strano date le imponenti
dimensioni del parco; era stato costruito in modo da apparire un’opera
spontanea e naturale, ma in realtà era puramente artificiale. Ogni albero era
stato piantato con logica e rigore, ogni cascata e ogni corso d’acqua
posizionati in seguito ad accurate misure, ogni panchina inchiodata in un punto
ben preciso. Dietro qualsiasi roccia e ogni singolo filo d’erba stavano
moltissimi calcoli e un’abilità architettonica non indifferente; nel suo
complesso, il parco pareva proprio essersi fatto da sé.
Percorse per qualche minuto il viale principale, rigorosamente sterrato e sul quale giacevano alcuni ciottoli sparuti, osservando meravigliato i dintorni man mano che passeggiava. Ancora non si spiegava come avesse potuto non notarlo prima.
Gli piaceva molto, è vero, ma non sempre i bei posti sono anche quelli che ispirano l’arte. L’ispirazione è una cosa assolutamente soggettiva, un’eccitazione dell’animo la cui sorgente varia da soggetto a soggetto. C’è chi si sente maggiormente stimolato in una caotica metropoli, chi in una sperduta campagna, chi nel proprio studio o chi ha bisogno della presenza di una determinata persona a prescindere dal luogo in cui ci si trova; c’è chi dà il proprio meglio durante le ore notturne, chi all’alba, chi al tramonto. L’ispirazione non è governata da leggi ferree, non è una scienza esatta né tantomeno si può prevedere quando essa colga. Non c’è da stupirsi, alla luce di tutto ciò, come in alcune culture essa sia stata divinizzata – per i greci, essere ispirati voleva dire essere trasportati oltre la propria mente e accostarsi ai pensieri del divino - e come, per secoli, diversi grandi artisti come Edgar Allan Poe o Percy Shelley l’abbiano descritta come qualcosa di assolutamente misterioso e inspiegabile.
Percorse per qualche minuto il viale principale, rigorosamente sterrato e sul quale giacevano alcuni ciottoli sparuti, osservando meravigliato i dintorni man mano che passeggiava. Ancora non si spiegava come avesse potuto non notarlo prima.
Gli piaceva molto, è vero, ma non sempre i bei posti sono anche quelli che ispirano l’arte. L’ispirazione è una cosa assolutamente soggettiva, un’eccitazione dell’animo la cui sorgente varia da soggetto a soggetto. C’è chi si sente maggiormente stimolato in una caotica metropoli, chi in una sperduta campagna, chi nel proprio studio o chi ha bisogno della presenza di una determinata persona a prescindere dal luogo in cui ci si trova; c’è chi dà il proprio meglio durante le ore notturne, chi all’alba, chi al tramonto. L’ispirazione non è governata da leggi ferree, non è una scienza esatta né tantomeno si può prevedere quando essa colga. Non c’è da stupirsi, alla luce di tutto ciò, come in alcune culture essa sia stata divinizzata – per i greci, essere ispirati voleva dire essere trasportati oltre la propria mente e accostarsi ai pensieri del divino - e come, per secoli, diversi grandi artisti come Edgar Allan Poe o Percy Shelley l’abbiano descritta come qualcosa di assolutamente misterioso e inspiegabile.
Misteriosa e inspiegabile era, infatti,
anche la faccenda del parco. Gli piaceva da matti ed era oggettivamente un
posto meraviglioso, ma, ciononostante, non faceva ardere in lui il fuoco della
creatività.
Cadde nello sconforto. Che il problema
fosse lui? Che forse avesse perso la sua innata abilità? Stavano così le cose?
Non gli era rimasto nemmeno un briciolo di talento?
Colmo di tristezza, tirò un calcio brusco
a un sassolino e si mise le mani in tasca. Si stava facendo buio rapidamente.
Arrivò al termine di quel viale
sterrato, in un punto dove il sentiero si allargava per ospitare al suo centro
un laghetto abbastanza ampio; sulla superficie danzava qualche anatra, in
silenzio.
C’erano, tutt’intorno al lago, dei
lampioni decisamente obsoleti e, sotto di questi, delle panchine di legno.
Decise di sedersi, facendo sprofondare la testa tra le mani.
La sua mente si riempì dei debiti che
aveva accumulato e che non sapeva come saldare, delle bollette ancora da pagare
che aveva abbandonato sulla mensola della cucina, dei contributi arretrati di
due mesi che ancora doveva versare all’ex moglie.
Stette così a fissare il suolo per
parecchi minuti, coi gomiti puntati sulle cosce, mentre la leggera brezza autunnale
gli accarezzava la pelle e la luna si faceva più viva nel cielo.
Que
que que que que que que que
Era un verso potente, che non sarebbe
mai potuto appartenere a un’anatra, nonostante la forte somiglianza del timbro.
Alzò lo sguardo.
Un cigno, regale e candido, lo guardava
scuotendo freneticamente la coda. Gli stava urlando contro con la sua voce
starnazzante ed energica, che mal si addice a un animale così pieno di fascino
e bellezza. Intorno, le papere sguazzavano allegre.
Lo scrittore sostenne lo sguardo del
cigno per qualche secondo p; solo in un secondo momento si accorse dello splendore che si era creato
mentre era invischiato nei suoi turbolenti pensieri. La luna, tonda e paffuta,
si specchiava nel laghetto, mentre i lampioni dallo stile antiquato donavano al
paesaggio un’atmosfera magica, illuminando soffusamente il vialetto attorno
all’acqua; la presenza quasi eterea del cigno si accordava perfettamente col
resto, specie ora che aveva smesso di starnazzare. Gli pareva di far parte
d’una cartolina.
Era questo, era questo che stava
cercando!
Eccola, eccola! Eccola lì,
l’ispirazione!
Sentì il corpo pervaso da una nuova
freschezza, nuovo vigore, nuovo slancio, e non poté sottrarsi a
quell’irrefrenabile foga creativa. Perché avrebbe dovuto, in fondo? Quello che
gli stava capitando era proprio ciò che cercava da settimane, se non
addirittura da mesi!
Cacciò la mano nella tasca interna della
giacca e ne estrasse un taccuino e una penna.
Abbandonò completamente le redini delle
proprie membra all’idea che gli riempiva la testa, lasciando a quella
l’incombenza di muovere la sua mano destra e la penna che stringeva con rinato
fervore.
L’intuizione che lo aveva catturato,
bandendo false modestie, era davvero geniale: si trattava della storia di uno
scrittore in declino e senza più spunti - sull’argomento ne sapeva qualcosa
- che per caso, nel corso di un viaggio
in Grecia, incontrava Calliope, la celeberrima musa di Omero, e la rapiva per
sfruttarne le qualità soprannaturali a proprio vantaggio, sottoponendo la
fragile creatura a violenze di ogni tipo. In breve diventava ricco e famoso,
ma, proprio all’apice della notorietà, sarebbe stato chiamato a pagare le
terribili conseguenze del suo infimo gesto.
Ecco, questo punto della storia aveva -
come dire? - ancora bisogno d’esser definito, ma per ora andava benissimo anche
così. In fondo gli serviva un’idea di base solida e originale e ora, beh,
l’aveva trovata, eccome se l’aveva trovata!
Non smise un secondo di scrivere come un
matto su quella sua minuscola agendina, con un grosso sorriso di soddisfazione
celato, prima ancora che sulla bocca, negli occhi luccicanti.
Stabilì le linee guida della storia e
tratteggiò le caratterizzazioni dei prototipi dei personaggi principali,
finendo per scribacchiare per ore intere su quei piccoli fogli di carta a buon
mercato, mentre il resto del mondo dormiva. Solo il cigno era rimasto sveglio,
a fissarlo in silenzio.
Ancora entusiasta del suo operato,
decise infine di alzarsi dalla panchina per rincasare, data l’ora tarda; sarebbe
poi tornato lì la sera successiva. Eccome se ci sarebbe tornato!
Ebbro di felicità, si levò, rivolse al
cigno un composto gesto di riverenza e girò i tacchi, percorrendo il vialetto
in senso inverso a come aveva fatto qualche ora addietro.
Appena rientrato in casa, si fiondò a
letto; il sonno colò su di lui come un delizioso balsamo ristoratore, che lo
avvolgeva e lo cullava dolcemente.
Nonostante fosse completamente immerso
nel torpore notturno ormai da qualche ora, ancora non aveva smesso di
sorridere.
Il giorno successivo faticò a
svegliarsi. S’aveva davvero da ridere a guardarlo, intontito e assopito,
sprofondato nel giaciglio, mentre con la mano cercava a tentoni la sveglia, per
ritardarne l’allarme – fissato di norma alle nove del mattino – Dio solo sa
quante volte!
Finalmente, verso le undici, si espresse
in un’encomiabile prova di forza di volontà forzandosi a scendere dal letto.
Trascorse quella giornata a pensare.
Pensava, ribollendo di un entusiasmo se
possibile ancor più vivo di quello del giorno precedente, a cosa sarebbe successo quella notte stessa.
Pensava al parco, al lago, alla luna.
Al cigno.
Sì, il cigno gli era rimasto impresso a
fondo nella memoria: solo a fargli compagnia in quell’ispirato cammino, sveglio
fino alla sua partenza dal parco, e lo scrutava, lo incoraggiava, unico cigno
in mezzo alle anatre, esattamente come lui, rifletté, era l’unico artista del
suo paesino, in mezzo ai lavoratori comuni che lo giudicavano, lo insultavano
talvolta, ma non lo comprendevano; o forse, non potevano comprenderlo.
Passarono le ore, in un modo o
nell’altro. Consumò una cena frugale che ben rivelava il suo status di single -
pane tostato, aglio, olio, fagioli borlotti, cipolla rossa e un pizzico di sale
– e poi, fattesi le dieci di sera, decise di incamminarsi verso il parco,
armato di penna e taccuino. Si trattenne a stento dal percorrere la strada e il
vialetto saltellando come un’antilope; a vederlo, com’era entusiasta! Non gli
rideva solo la bocca, gli occhi, il volto come la sera passata; gli rideva il
cuore, d’un riso gioioso e pulsante.
Fu sollevato dallo scoprire vuoto il
parco e libera la panchina dinanzi al laghetto; il silenzio inghiottiva quel
posto incantato, isolandolo persino da qualsiasi rombo di motore o discorso
d’uomo.
La quiete era spezzata, a tratti, dal
lieve fruscio del vento tra le foglie gialle e rosse sparpagliate sul viale,
che assomigliava così a un’allegra moquette variopinta, e dallo spensierato
starnazzare delle anatre, occupate a rincorrersi sulla superficie dell’acqua torbida.
Anche il cigno era accorso sulla riva del lago, come per porgergli educatamente
il bentornato, ma era rimasto in completo silenzio e stava lì, statuario, a
osservarlo.
Lo scrittore gli rivolse un ampio
sorriso, sinceramente rinfrancato di rivedere quella gradita presenza, e si sistemò
alla postazione del giorno prima. Stavolta recava già in mano carta e penna.
Stette lì, impegnato a guardarsi attorno
eccitato, per diversi minuti.
L’euforia, ahimè, svanì ben presto col
passare del tempo, quando i minuti divennero ore e le pagine del taccuino
rimasero bianche o, tutt’al più, ricche di cancellature. Aggrottava la fronte e
storceva la bocca dopo la stesura di ogni frase, prima di eliminarla
brutalmente con un tratto deciso della biro.
Era tornato a essere parecchio
frustrato, forse adesso anche più di quanto non si fosse mai sentito in vita
sua.
Ma come, ora aveva l’idea, aveva i
personaggi, aveva un storia, dannazione!, come poteva essere che non riusciva a
scrivere niente? Eppure si trovava proprio nel medesimo posto della sera prima,
persino nelle stesse condizioni!
Assestò un pugno disperato al legno mal
verniciato della panchina.
Il cigno sobbalzò scuotendo le ali,
mentre le anatre si disperdevano rapidamente riempiendo il silenzio con i loro
versi striduli.
L’uomo li guardò, le anatre e il
cigno, e si grattò freneticamente il
capo scompigliando i suoi ricci castani. Il suo sguardo, che sembrava
rattristato già in condizioni normali a causa del taglio degli occhi, pareva
ancora più mesto.
Perché doveva vivere così, succube della
sua testa e vincolato da delle dannate idee per riuscire ad arrivare a fine
mese? Come poteva avere il tempo di godersi gioiosamente la vita se la sua
mente doveva sfornare spunti in continuazione e, quando non lo faceva, doveva a
maggior ragione preoccuparsi di averne?
Ma c’era di più, c’era di più,
sissignori! C’era di più da dire su quel
mondo marcio!
I lavoratori!
Sì, loro, i lavoratori comuni; anatre,
li aveva chiamati quella mattina!
L’analogia però era completamente
errata, era caduto in uno sbaglio clamoroso: i lavoratori non potevano essere
anatre e lui non poteva essere cigno. Aveva commesso una svista concettuale di
fondamentale importanza.
I pennuti che sguazzavano nel laghetto
si assomigliavano più o meno tutti, indipendentemente che fossero oche, papere,
anatre o cigni, e la similitudine si poteva allargare alla quasi restante
totalità del mondo animale; una sostanziale differenza, però, stava tra animale
e uomo, artista o lavoratore che fosse.
L’intelligenza, l’anima, il pensiero? Ma
no, tutt’altro!
La religione, allora? Macché,
completamente fuori strada!
E’ ovvio: la vita! La vita è ciò che
distingue l’animale dall’uomo!
Quest’ultimo deve lavorare, occupa così
il suo tempo; il lavoro è certo necessario ma, col trascorrere dei secoli, è
passato da semplice meccanismo di sussistenza a ragione ultima dell’esistenza e
preoccupazione principale della stessa. L’uomo non lavora più per vivere, ma
vive per lavorare, non accorgendosi nemmeno del tempo che scorre più in fretta
di quanto lui possa realizzare.
Non si rende conto nemmeno più della
vita, non se la gode, ed è quindi come se non l’avesse mai - si badi bene, mai! - vissuta!
Nei momenti di tempo libero la guarda
con sorpresa e distacco, abituato com’è a tener la testa bassa e invischiarsi
in una qualsiasi monotona occupazione: l’uomo è sempre meno capace di vivere e
confonde sempre di più questo termine con il concetto di “trascorrere la vita”.
Gli animali, invece, sono completamente
diversi. Per loro ogni giorno è identico ai precedenti e ai futuri, non hanno
coscienza del succedersi delle mattine e quindi vivono intensamente tutti gli
attimi: ogni giornata è per loro la prima e l’ultima.
La vita, la vita vera, lui l’aveva vista
per la prima volta lì, in quel laghetto, consumarsi proprio dinanzi ai suoi
occhi. Lui non ne faceva parte; non ne aveva mai fatto parte.
Le anatre si stavano rincorrendo e
starnazzavano allegramente sulla superficie dell’acqua, in mezzo alle ninfee e
alle canne verdastre, mentre il cigno ancora scodinzolava per accogliere
degnamente lui nel parco e la luna paffuta nel cielo nero.
Questa era la vita, questa era la vita!
E lui… lui sì, sì, lui voleva vivere!
Voleva finalmente vivere! Non poteva, non voleva più sottrarsi all’allettante
richiamo della vita, ora che l’aveva vista, ora che aveva capito!
La vedeva, la vedeva sempre più
chiaramente, ora la vedeva, sì, poteva vederla! Era meravigliosa, meravigliosa!
Meravigliosa.
La mattina successiva una donna,
trafelata e ansimante, irruppe nella casetta del custode del parco,
trascinandosi dietro una bambina che doveva avere non più di cinque anni,
dall’aria smarrita e con un sorrisino trattenuto sulle labbra.
La madre sembrava scioccata; il suo
volto, dai lineamenti delicati, era livido di rabbia. Accusò il custode di non
essere in grado di svolgere il proprio lavoro, di lasciare che cose orribili
accadessero nel parco posto sotto la sua tutela e di aver rovinato per sempre
la fragile psiche della figlia. L’uomo, preso alla sprovvista, dichiarò che
proprio non sapeva a cosa la donna si stesse riferendo; questa, ancora più
irritata, gli rispose che c’era un uomo, un uomo che… ma era meglio che lo
vedesse con i propri occhi.
Lo guidò per i viali del parco con ritmo
sostenuto, dichiarando scocciata, ogni venti passi, che al laghetto avrebbe
visto, oh se avrebbe visto, e che qualcuno avrebbe dovuto assumersi la
responsabilità del fattaccio e pagarle i danni morali. Il custode, intanto, si
stava chiedendo cosa mai l’avesse spinto ad alzarsi dal letto quella mattina.
Giunti al lago, notarono che una nutrita
folla di persone sostava nei suoi pressi; da dov’erano non riuscivano nemmeno a
scorgere uno spiraglio dello specchio d’acqua. Cosa strana: solitamente a
quell’ora in quella zona bazzicavano soltanto pensionati, mendicanti o
suonatori di bonghi. L’uomo, forte del suo ruolo, si fece strada tra la gente
curiosa e sbigottita, seguito dalla donna furiosa e dalla bambina, che
frattanto era scoppiata a ridere. Quando arrivarono sulla riva del lago, il
custode non poté fare a meno di strabuzzare gli occhi e sistemarsi meglio gli
occhiali sulla gobba del naso.
Un folle, uno squilibrato, altra
spiegazione non c’era, nuotava e saltellava nell’acqua, rincorrendo le anatre e facendo un chiasso
infernale; il pazzo imitava il verso dei palmipedi e scuoteva le braccia
piegate a mo’ di candide ali piumate.
La folla intorno sembrava indignata,
solo alcuni trattenevano a stento un sorriso, mentre i pochi bambini presenti
ridevano a crepapelle.
Il custode, superato lo smarrimento
iniziale e sempre più convinto che quella mattina avrebbe dovuto restare a
letto, balzò la bassa staccionata che correva lungo tutto il perimetro del lago
e si mise a guadarlo per raggiungere il
pazzoide, che ancora starnazzava e beccava - con il naso - le ninfee. Le anatre
fuggivano spaventate, mentre il cigno osservava la scena in silenzio da qualche
metro di distanza.
L’uomo rincorse il mentecatto a lungo,
che scalciava e fuggiva alla vista dell’inseguitore, e poi finalmente
l’acciuffò per il bavero del cappotto, zuppo d’acqua. Scosse il pazzoide per
qualche secondo, ordinandogli di tornare in sé, ma costui non accennava a
smorzare quel suo inspiegabile comportamento e cercava di divincolarsi dalla
stretta dell’aguzzino.
Il custode prese a schiaffeggiare il poveretto chiedendogli che cosa fosse successo, imponendogli di calmarsi, affermando che andava tutto
bene; a quelle parole l’uomo si quietò improvvisamente, laddove anche i
ceffoni avevano fallito. I suoi occhi, che fino a quel momento avevano guardato
intensamente un imprecisato punto del vuoto, scattarono in direzione
dell’interlocutore, fissandolo profondamente nelle pupille.
Che ci si creda o meno, quell’uomo, gocciolante
di acqua torbida e fango, con i capelli arruffati e lo sguardo perso, rispose
così al custode: <<Mio buon signore>> esordì con una voce che
sembrava provenire da un altro universo, <<mi lasci qui, con queste
creature, non chiedo altro; io non
sono affatto un folle. Semplicemente, non mi sono mai sentito meglio in vita
mia.>>
Mattia Del Core
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