giovedì 18 aprile 2013

Di notte, un cigno


Il sole era appena tramontato, quando l’uomo entrò nel parco.
Esercitava la professione di scrittore ormai da qualche anno, ma da tempo non lo coglieva un’ispirazione che fosse davvero degna di questo nome, una di quelle idee talmente buone che pervadono l’animo e stregano la mente, una di quelle trovate così valide che se ti scuotono nel cuore della notte, mentre stai dormendo, non puoi aspettare l’indomani per segnartele sul taccuino.
Ciò rappresentava un serio problema per lui, che per vivere doveva farsi venire spunti esaltanti in continuazione. Se ne disperava, si struggeva, stava alzato fino a tarda notte sperando che qualche buona idea lo afferrasse; ma tutto ciò che ne rimediava era il cestino puntualmente zeppo di carta straccia. Nemmeno la pioggia con la sua musicalità poetica, neppure l’atmosfera notturna colma di fascino e silenzio e neanche tutt’e due le cose insieme riuscivano a fornirgli qualche spunto che fosse vagamente degno di nota.
Da giorni vagava per i dintorni del suo paesello in cerca di un luogo particolarmente suggestivo da ispirarne la penna, senza ottenere, però, i risultati sperati. Tutti gli sembravano banali, già visti, monotoni, incapaci di risvegliarne la creatività e l’abilità compositiva.
Si comprende all’istante quando un posto è quello giusto; non deve necessariamente essere un paradiso terrestre o una spiaggia caraibica, ma deve bensì entrare nell’animo dell’artista, scolpirsi nella sua retina e invadergli la mente, affinché possa guidarne la mano nella realizzazione dell’opera d’arte. E’ un colpo di fulmine, un innamoramento improvviso e inaspettato tra uomo e paesaggio, con cui il primo mette a disposizione il proprio corpo al secondo affinché possa esprimersi attraverso di lui.
Fu proprio quel che gli successe un giorno, al calar della sera, entrando sconfortato in un parco proprio dietro casa sua. L’aveva scoperto per caso, e prima d’ora – strano a dirsi – non si era mai accorto della sua esistenza. Il cielo, coperto di nuvole, contribuiva a creare quell’atmosfera malinconica che solo a inizio Novembre è possibile vivere nella Brianza, quando le foglie ingialliscono e cadono dai rami per tappezzare i viali.



Non ci aveva mai fatto caso prima di allora, né tantomeno ci era entrato, e ciò era parecchio strano date le imponenti dimensioni del parco; era stato costruito in modo da apparire un’opera spontanea e naturale, ma in realtà era puramente artificiale. Ogni albero era stato piantato con logica e rigore, ogni cascata e ogni corso d’acqua posizionati in seguito ad accurate misure, ogni panchina inchiodata in un punto ben preciso. Dietro qualsiasi roccia e ogni singolo filo d’erba stavano moltissimi calcoli e un’abilità architettonica non indifferente; nel suo complesso, il parco pareva proprio essersi fatto da sé.
Percorse per qualche minuto il viale principale, rigorosamente sterrato e sul quale giacevano alcuni ciottoli sparuti, osservando meravigliato i dintorni man mano che passeggiava. Ancora non si spiegava come avesse potuto non notarlo prima.
Gli piaceva molto, è vero, ma non sempre i bei posti sono anche quelli che ispirano l’arte. L’ispirazione è una cosa assolutamente soggettiva, un’eccitazione dell’animo la cui sorgente varia da soggetto a soggetto. C’è chi si sente maggiormente stimolato in una caotica metropoli, chi in una sperduta campagna, chi nel proprio studio o chi ha bisogno della presenza di una determinata persona a prescindere dal luogo in cui ci si trova; c’è chi dà il proprio meglio durante le ore notturne, chi all’alba, chi al tramonto. L’ispirazione non è governata da leggi ferree, non è una scienza esatta né tantomeno si può prevedere quando essa colga. Non c’è da stupirsi, alla luce di tutto ciò, come in alcune culture essa sia stata divinizzata – per i greci, essere ispirati voleva dire essere trasportati oltre la propria mente e accostarsi ai pensieri del divino - e come, per secoli, diversi grandi artisti come Edgar Allan Poe o Percy Shelley l’abbiano descritta come qualcosa di assolutamente misterioso e inspiegabile.
Misteriosa e inspiegabile era, infatti, anche la faccenda del parco. Gli piaceva da matti ed era oggettivamente un posto meraviglioso, ma, ciononostante, non faceva ardere in lui il fuoco della creatività.
Cadde nello sconforto. Che il problema fosse lui? Che forse avesse perso la sua innata abilità? Stavano così le cose? Non gli era rimasto nemmeno un briciolo di talento?
Colmo di tristezza, tirò un calcio brusco a un sassolino e si mise le mani in tasca. Si stava facendo buio rapidamente.
Arrivò al termine di quel viale sterrato, in un punto dove il sentiero si allargava per ospitare al suo centro un laghetto abbastanza ampio; sulla superficie danzava qualche anatra, in silenzio.
C’erano, tutt’intorno al lago, dei lampioni decisamente obsoleti e, sotto di questi, delle panchine di legno. Decise di sedersi, facendo sprofondare la testa tra le mani.
La sua mente si riempì dei debiti che aveva accumulato e che non sapeva come saldare, delle bollette ancora da pagare che aveva abbandonato sulla mensola della cucina, dei contributi arretrati di due mesi che ancora doveva versare all’ex moglie.
Stette così a fissare il suolo per parecchi minuti, coi gomiti puntati sulle cosce, mentre la leggera brezza autunnale gli accarezzava la pelle e la luna si faceva più viva nel cielo.

Que que que que que que que que


Era un verso potente, che non sarebbe mai potuto appartenere a un’anatra, nonostante la forte somiglianza del timbro.
Alzò lo sguardo.
Un cigno, regale e candido, lo guardava scuotendo freneticamente la coda. Gli stava urlando contro con la sua voce starnazzante ed energica, che mal si addice a un animale così pieno di fascino e bellezza. Intorno, le papere sguazzavano allegre.
Lo scrittore sostenne lo sguardo del cigno per qualche secondo p; solo in un secondo momento si accorse dello splendore che si era creato mentre era invischiato nei suoi turbolenti pensieri. La luna, tonda e paffuta, si specchiava nel laghetto, mentre i lampioni dallo stile antiquato donavano al paesaggio un’atmosfera magica, illuminando soffusamente il vialetto attorno all’acqua; la presenza quasi eterea del cigno si accordava perfettamente col resto, specie ora che aveva smesso di starnazzare. Gli pareva di far parte d’una cartolina.
Era questo, era questo che stava cercando!
Eccola, eccola! Eccola lì, l’ispirazione!
Sentì il corpo pervaso da una nuova freschezza, nuovo vigore, nuovo slancio, e non poté sottrarsi a quell’irrefrenabile foga creativa. Perché avrebbe dovuto, in fondo? Quello che gli stava capitando era proprio ciò che cercava da settimane, se non addirittura da mesi!
Cacciò la mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse un taccuino e una penna.
Abbandonò completamente le redini delle proprie membra all’idea che gli riempiva la testa, lasciando a quella l’incombenza di muovere la sua mano destra e la penna che stringeva con rinato fervore.
L’intuizione che lo aveva catturato, bandendo false modestie, era davvero geniale: si trattava della storia di uno scrittore in declino e senza più spunti - sull’argomento ne sapeva qualcosa -  che per caso, nel corso di un viaggio in Grecia, incontrava Calliope, la celeberrima musa di Omero, e la rapiva per sfruttarne le qualità soprannaturali a proprio vantaggio, sottoponendo la fragile creatura a violenze di ogni tipo. In breve diventava ricco e famoso, ma, proprio all’apice della notorietà, sarebbe stato chiamato a pagare le terribili conseguenze del suo infimo gesto.
Ecco, questo punto della storia aveva - come dire? - ancora bisogno d’esser definito, ma per ora andava benissimo anche così. In fondo gli serviva un’idea di base solida e originale e ora, beh, l’aveva trovata, eccome se l’aveva trovata!
Non smise un secondo di scrivere come un matto su quella sua minuscola agendina, con un grosso sorriso di soddisfazione celato, prima ancora che sulla bocca, negli occhi luccicanti.
Stabilì le linee guida della storia e tratteggiò le caratterizzazioni dei prototipi dei personaggi principali, finendo per scribacchiare per ore intere su quei piccoli fogli di carta a buon mercato, mentre il resto del mondo dormiva. Solo il cigno era rimasto sveglio, a fissarlo in silenzio.
Ancora entusiasta del suo operato, decise infine di alzarsi dalla panchina per rincasare, data l’ora tarda; sarebbe poi tornato lì la sera successiva. Eccome se ci sarebbe tornato!
Ebbro di felicità, si levò, rivolse al cigno un composto gesto di riverenza e girò i tacchi, percorrendo il vialetto in senso inverso a come aveva fatto qualche ora addietro.
Appena rientrato in casa, si fiondò a letto; il sonno colò su di lui come un delizioso balsamo ristoratore, che lo avvolgeva e lo cullava dolcemente.
Nonostante fosse completamente immerso nel torpore notturno ormai da qualche ora, ancora non aveva smesso di sorridere.

Il giorno successivo faticò a svegliarsi. S’aveva davvero da ridere a guardarlo, intontito e assopito, sprofondato nel giaciglio, mentre con la mano cercava a tentoni la sveglia, per ritardarne l’allarme – fissato di norma alle nove del mattino – Dio solo sa quante volte!
Finalmente, verso le undici, si espresse in un’encomiabile prova di forza di volontà forzandosi a scendere dal letto.
Trascorse quella giornata a pensare.
Pensava, ribollendo di un entusiasmo se possibile ancor più vivo di quello del giorno precedente,  a cosa sarebbe successo quella notte stessa. Pensava al parco, al lago, alla luna.
Al cigno.
Sì, il cigno gli era rimasto impresso a fondo nella memoria: solo a fargli compagnia in quell’ispirato cammino, sveglio fino alla sua partenza dal parco, e lo scrutava, lo incoraggiava, unico cigno in mezzo alle anatre, esattamente come lui, rifletté, era l’unico artista del suo paesino, in mezzo ai lavoratori comuni che lo giudicavano, lo insultavano talvolta, ma non lo comprendevano; o forse, non potevano comprenderlo.
Passarono le ore, in un modo o nell’altro. Consumò una cena frugale che ben rivelava il suo status di single - pane tostato, aglio, olio, fagioli borlotti, cipolla rossa e un pizzico di sale – e poi, fattesi le dieci di sera, decise di incamminarsi verso il parco, armato di penna e taccuino. Si trattenne a stento dal percorrere la strada e il vialetto saltellando come un’antilope; a vederlo, com’era entusiasta! Non gli rideva solo la bocca, gli occhi, il volto come la sera passata; gli rideva il cuore, d’un riso gioioso e pulsante.
Fu sollevato dallo scoprire vuoto il parco e libera la panchina dinanzi al laghetto; il silenzio inghiottiva quel posto incantato, isolandolo persino da qualsiasi rombo di motore o discorso d’uomo.
La quiete era spezzata, a tratti, dal lieve fruscio del vento tra le foglie gialle e rosse sparpagliate sul viale, che assomigliava così a un’allegra moquette variopinta, e dallo spensierato starnazzare delle anatre, occupate a rincorrersi sulla superficie dell’acqua torbida. Anche il cigno era accorso sulla riva del lago, come per porgergli educatamente il bentornato, ma era rimasto in completo silenzio e stava lì, statuario, a osservarlo.
Lo scrittore gli rivolse un ampio sorriso, sinceramente rinfrancato di rivedere quella gradita presenza, e si sistemò alla postazione del giorno prima. Stavolta recava già in mano carta e penna.
Stette lì, impegnato a guardarsi attorno eccitato, per diversi minuti.

L’euforia, ahimè, svanì ben presto col passare del tempo, quando i minuti divennero ore e le pagine del taccuino rimasero bianche o, tutt’al più, ricche di cancellature. Aggrottava la fronte e storceva la bocca dopo la stesura di ogni frase, prima di eliminarla brutalmente con un tratto deciso della biro.
Era tornato a essere parecchio frustrato, forse adesso anche più di quanto non si fosse mai sentito in vita sua.
Ma come, ora aveva l’idea, aveva i personaggi, aveva un storia, dannazione!, come poteva essere che non riusciva a scrivere niente? Eppure si trovava proprio nel medesimo posto della sera prima, persino nelle stesse condizioni!
Assestò un pugno disperato al legno mal verniciato della panchina.
Il cigno sobbalzò scuotendo le ali, mentre le anatre si disperdevano rapidamente riempiendo il silenzio con i loro versi striduli.
L’uomo li guardò, le anatre e il cigno,  e si grattò freneticamente il capo scompigliando i suoi ricci castani. Il suo sguardo, che sembrava rattristato già in condizioni normali a causa del taglio degli occhi, pareva ancora più mesto.
Perché doveva vivere così, succube della sua testa e vincolato da delle dannate idee per riuscire ad arrivare a fine mese? Come poteva avere il tempo di godersi gioiosamente la vita se la sua mente doveva sfornare spunti in continuazione e, quando non lo faceva, doveva a maggior ragione preoccuparsi di averne?
Ma c’era di più, c’era di più, sissignori!  C’era di più da dire su quel mondo marcio!
I lavoratori!
Sì, loro, i lavoratori comuni; anatre, li aveva chiamati quella mattina!
L’analogia però era completamente errata, era caduto in uno sbaglio clamoroso: i lavoratori non potevano essere anatre e lui non poteva essere cigno. Aveva commesso una svista concettuale di fondamentale importanza.
I pennuti che sguazzavano nel laghetto si assomigliavano più o meno tutti, indipendentemente che fossero oche, papere, anatre o cigni, e la similitudine si poteva allargare alla quasi restante totalità del mondo animale; una sostanziale differenza, però, stava tra animale e uomo, artista o lavoratore che fosse.
L’intelligenza, l’anima, il pensiero? Ma no, tutt’altro!
La religione, allora? Macché, completamente fuori strada!
E’ ovvio: la vita! La vita è ciò che distingue l’animale dall’uomo!
Quest’ultimo deve lavorare, occupa così il suo tempo; il lavoro è certo necessario ma, col trascorrere dei secoli, è passato da semplice meccanismo di sussistenza a ragione ultima dell’esistenza e preoccupazione principale della stessa. L’uomo non lavora più per vivere, ma vive per lavorare, non accorgendosi nemmeno del tempo che scorre più in fretta di quanto lui possa realizzare.
Non si rende conto nemmeno più della vita, non se la gode, ed è quindi come se non l’avesse mai - si badi bene, mai! - vissuta!
Nei momenti di tempo libero la guarda con sorpresa e distacco, abituato com’è a tener la testa bassa e invischiarsi in una qualsiasi monotona occupazione: l’uomo è sempre meno capace di vivere e confonde sempre di più questo termine con il concetto di “trascorrere la vita”.
Gli animali, invece, sono completamente diversi. Per loro ogni giorno è identico ai precedenti e ai futuri, non hanno coscienza del succedersi delle mattine e quindi vivono intensamente tutti gli attimi: ogni giornata è per loro la prima e l’ultima.
La vita, la vita vera, lui l’aveva vista per la prima volta lì, in quel laghetto, consumarsi proprio dinanzi ai suoi occhi. Lui non ne faceva parte; non ne aveva mai fatto parte.
Le anatre si stavano rincorrendo e starnazzavano allegramente sulla superficie dell’acqua, in mezzo alle ninfee e alle canne verdastre, mentre il cigno ancora scodinzolava per accogliere degnamente lui nel parco e la luna paffuta nel cielo nero.
Questa era la vita, questa era la vita!
E lui… lui sì, sì, lui voleva vivere! Voleva finalmente vivere! Non poteva, non voleva più sottrarsi all’allettante richiamo della vita, ora che l’aveva vista, ora che aveva capito!
La vedeva, la vedeva sempre più chiaramente, ora la vedeva, sì, poteva vederla! Era meravigliosa, meravigliosa!
Meravigliosa.

La mattina successiva una donna, trafelata e ansimante, irruppe nella casetta del custode del parco, trascinandosi dietro una bambina che doveva avere non più di cinque anni, dall’aria smarrita e con un sorrisino trattenuto sulle labbra.
La madre sembrava scioccata; il suo volto, dai lineamenti delicati, era livido di rabbia. Accusò il custode di non essere in grado di svolgere il proprio lavoro, di lasciare che cose orribili accadessero nel parco posto sotto la sua tutela e di aver rovinato per sempre la fragile psiche della figlia. L’uomo, preso alla sprovvista, dichiarò che proprio non sapeva a cosa la donna si stesse riferendo; questa, ancora più irritata, gli rispose che c’era un uomo, un uomo che… ma era meglio che lo vedesse con i propri occhi.
Lo guidò per i viali del parco con ritmo sostenuto, dichiarando scocciata, ogni venti passi, che al laghetto avrebbe visto, oh se avrebbe visto, e che qualcuno avrebbe dovuto assumersi la responsabilità del fattaccio e pagarle i danni morali. Il custode, intanto, si stava chiedendo cosa mai l’avesse spinto ad alzarsi dal letto quella mattina.
Giunti al lago, notarono che una nutrita folla di persone sostava nei suoi pressi; da dov’erano non riuscivano nemmeno a scorgere uno spiraglio dello specchio d’acqua. Cosa strana: solitamente a quell’ora in quella zona bazzicavano soltanto pensionati, mendicanti o suonatori di bonghi. L’uomo, forte del suo ruolo, si fece strada tra la gente curiosa e sbigottita, seguito dalla donna furiosa e dalla bambina, che frattanto era scoppiata a ridere. Quando arrivarono sulla riva del lago, il custode non poté fare a meno di strabuzzare gli occhi e sistemarsi meglio gli occhiali sulla gobba del naso.
Un folle, uno squilibrato, altra spiegazione non c’era, nuotava e saltellava nell’acqua,  rincorrendo le anatre e facendo un chiasso infernale; il pazzo imitava il verso dei palmipedi e scuoteva le braccia piegate a mo’ di candide ali piumate.
La folla intorno sembrava indignata, solo alcuni trattenevano a stento un sorriso, mentre i pochi bambini presenti ridevano a crepapelle.
Il custode, superato lo smarrimento iniziale e sempre più convinto che quella mattina avrebbe dovuto restare a letto, balzò la bassa staccionata che correva lungo tutto il perimetro del lago e si mise a guadarlo per raggiungere  il pazzoide, che ancora starnazzava e beccava - con il naso - le ninfee. Le anatre fuggivano spaventate, mentre il cigno osservava la scena in silenzio da qualche metro di distanza.
L’uomo rincorse il mentecatto a lungo, che scalciava e fuggiva alla vista dell’inseguitore, e poi finalmente l’acciuffò per il bavero del cappotto, zuppo d’acqua. Scosse il pazzoide per qualche secondo, ordinandogli di tornare in sé, ma costui non accennava a smorzare quel suo inspiegabile comportamento e cercava di divincolarsi dalla stretta dell’aguzzino.
Il custode prese a schiaffeggiare il poveretto chiedendogli che cosa fosse successo, imponendogli di calmarsi, affermando che andava tutto bene; a quelle parole l’uomo si quietò improvvisamente, laddove anche i ceffoni avevano fallito. I suoi occhi, che fino a quel momento avevano guardato intensamente un imprecisato punto del vuoto, scattarono in direzione dell’interlocutore, fissandolo profondamente nelle pupille.
Che ci si creda o meno, quell’uomo, gocciolante di acqua torbida e fango, con i capelli arruffati e lo sguardo perso, rispose così al custode: <<Mio buon signore>> esordì con una voce che sembrava provenire da un altro universo, <<mi lasci qui, con queste creature, non chiedo altro; io non sono affatto un folle. Semplicemente, non mi sono mai sentito meglio in vita mia.>>  

Mattia Del Core

Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.
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